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Mese: Novembre 2019

Tecniche di Sopravvivenza: il fuoco Dakota (o Dakota Fire Hole)

Tecniche di sopravvivenza : Il fuoco Dakota (o Dakota Fire Hole)

E se ti dicessi che potresti accendere un fuoco che solo tu potresti vedere?
Ogni eventuale passante sarebbe assolutamente ignaro sia di te che del tuo fuoco.
Stiamo parlando del Dakota Fire Hole ..il fuoco “tattico” per eccellenza in grado di farti sparire ( e rimanere riscaldato) alla vista degli altri in una tipica situazione S.H.T.F. La buca per il fuoco del Dakota è un fuoco tattico che viene spesso utilizzato anche dai militari degli Stati Uniti. La fiamma produce una scarsa luminosità, fumo ridotto ed è più facile da accendere in presenza di venti forti.

Seguiremo i vari passaggi che dovrai compiere per costruire il tuo fuoco Dakota ed ovviameente imparereni quali strumenti sono necessari per raggiungere questo obiettivo.

Costruire il Dakota Fire Hole : il fuoco invisibile e senza fumo!

Bene! Cosa ci servirà per creare un Dakota Fire Hole?

Essendo fondamentalmente un “semplice” buco nel terreno la creazione del Fuoco Dakota
non necessita di nessuno strumento. O meglio: se tu avessi una piccola pala tattica con te
le operazioni di scavo sarebbero decisamente piu veloci.. ma la pala non è assolutamente necessaria:
possiamo sempre utilizzare un semplice palo appuntito per aiutarci nello scavo o le stesse mani…
ma in fondo..perchè dovresti volerlo fare a mani nude?

Tutorial Dakota Fire Hole – Step 1: Scavare le buche

(E attenzione che qui scopriamo una cosa importantissima!)

Ovviamente, il primo passo è scavare una buca profonda: i Marines Americani parlano di “due o tre piedi di profondità e di circa 1,5 piedi di larghezza” e qui incontriamo subito la prima sorpresa rispetto
all’idea generale del dakota fire hole che hanno tante persone improvvisate che non hanno mai affrontato la pratica di questa tecnica.

3 piedi circa di profondità infatti corrispondono, nel nostro sistema metrico decimale, a ben 90 CENTIMETRI ! Ho personalmente visto corsisti ( ma anche persone che generalmente dovrebbero essere più preparate in materia) fare fuochi Dakota profondi meno di 50 centimetri: questo comporta l’errore di fondo che il fuoco non rimanga del tutto sotto la linea del terreno e questo vuol dire che

  • prendendo molta piu aria di quel che dovrebbe: il fuoco brucerà molto più carburante rispetto
    ad un Dakkota Fire fatto bene
  • il fuoco, che dovrebbe essere una tecnica survival stealth è molto piu visibile
  • il fuoco fa più fumo
  • il fuoco sviluppi meno calore
  • vi obbliga a cucinare senza l’adeguato spazio verticale che un Dakota Hole fatto bene vi darebbe

Una ottima regola da tenere presente è semplicemente che più grande sarà il fuoco che vuoi costruire, più profondo e più ampio dovrà essere il buco : personalmente direi che il dakota hole
dovrebbe essere ampio tanto da poter ospitare comodamente un normale fuoco senza dover stare troppo a combattere per spezzare i rami che non entrano nel buco.

Tutorial Dakota Fire Hole – Step 2: come e in che direzione scavare la seconda buca

Passiamo ovviamente alla seconda buca da fare a circa 30 centimetri di distanza dalla prima.
La buca sarà più piccola a chiaramente non faremo una buca parallela e profonda quanto la prima ma essa scenderà in diagonale, fino alla base del primo buco.
Lo scopo di questo tunnel è ovviamente quello di portare aria alla base del fuoco situato nel primo.
Ma in che direzione va scavato il tunnel?
Attenzione a non scavare il tunnel di raccordo in una “direzione a caso” : il nostro scopo è ovviamente ottimizzare il flusso d’aria che riceve il fuoco ed è per questo che scaveremo il tunnel a favore di vento in modo che si incanali correttamente verso le braci ardenti.

E se non c’è vento?

Un buon “trucco” per sapere da dove spira il vento anche nel caso in cui
esso sia talmente leggero quasi da non sentirlo è quello di inumidirsi ila punta del dito ed esporlo all’aria: sentiremo immediatamente una parte del dito più fredda rispetto all’altra.
Immaginate la punta del dito come se fosse il fuoco e la direzione in cui sentite il dito freddo come quella in cui scavare la fossa a 30 centimetri di distanza.
Fatto questo avremo una via di entrata “obbligata” per l’aria dal momento che il calore e le fiamme si diffondono dal buco più grande e questo non permetterà all’ossigeno di entrare dall’alto.

Sicurezza ulteriore del fuoco Dakota

Tra l’altro , questo buco secondario del Dakota Hole ti permetterà di soffiare ossigeno nel fuoco senza correre il rischio di bruciarti la faccia soffiando nel fuoco principale.

Tutorial Dakota Fire Hole – Step 3: Allargare il tunnel

Una volta scavato il tunnel ed aver raggiunto il fuoco principale, ti accorgerai di aver scavato un tunnel largo quanto il tuo braccio piu o meno: ovviamente ciò è del tutto normale.
Da ora in poi dovrai dedicarti ad allargare, lavorando sia da un lato che dall’altro, fino a che il tunnel non sia largo almeno il doppio del tuo braccio.
Ricorda che più grande è il tunnel, più ossigeno può entrare e questo significa avere un fuoco che ha sempre ossigeno da bruciare e che quindi non si spegna facilmente!

Tutorial Dakota Fire Hole – Step 4: Accendere il fuoco Dakota fire hole!

Passaggio 4: ora che il tunnel è completo, è tempo di accendere il fuoco! .
Si fa ovviamente come abbiamo sempre fatto con un fuoco tradizionale.
Magari una piattaforma di legno aiuterà nei primi momenti prima che il fuoco , col tempo , la renderà uno strato di braci fumanti. Ricorda di utilizzare materiali secchi morti e accendi il fuoco come se fossi normalmente in superficie.

E’ ovviamente possibile cucinare sul fuoco Dakota !
Ti basterà avere l’accortezza di mettere spessi rami verdi sulla parte superiore del foro primario o bloccandoli sul lato delle pareti. I materiali verdi non bruceranno in fretta ed eviteranno che le tue pentola cadano nel fuoco.

Il rovo Selvatico

Il Rovo selvatico o Rubus ulmifolius


Potrei parlare per ore di questa pianta commestibile dalle mille proprietà, per molti ancora
sconosciute, ma cercherò di limitarmi a discuterne in queste poche righe.
Classificata nella famiglia delle Rosaceae è molto diffusa in tutta Italia poiché tende a crescere
molto rapidamente, infestando boschi, sentieri e tutte le zone incolte.
Ama le zone soleggiate e poco l’ombra, quindi, come la CLEMATIS VITALBA, riesce a formare grandi
grovigli che soffocano la vegetazione intorno.
Molto difficilmente si riesce ad estirparla o tagliarla, addirittura è in grado di germogliare
nuovamente e rapidamente anche dopo grandi incendi.
I suoi rami possono arrivare ad una lunghezza di 6mt e si presentano in modo diverso secondo l’età,
più legnosi e ricurvi quelli dell’anno precedente, mentre quelli del nuovo anno, hanno un
portamento eretto e più sottile ma entrambi muniti di robuste spine.
I rami dell’anno precedente sono quelli dove ci sarà la fioritura e la fruttificazione e sono destinati a
seccarsi l’anno successivo.


I fiori generalmente sono di colore bianco o rosa e sono formati da cinque petali riuniti in
infiorescenze e li troviamo sulla parte alta del ramo formando strutture piramidali.
La fioritura avviene all’inizio dell’estate quando le api, attratte dal loro profumo intenso e dal nettare
dolciastro, ne fanno banchetto, preparandosi per la produzione del miele.
Dopo la fioritura, tra agosto e settembre, possiamo godere delle More, frutto acidulo rosa scuro e
rosso quando ancora non ha raggiunto la piena maturazione ma che, una volta pronto, ha una
colorazione nero tendente al violaceo con un sapore molto più gradevole.
Le foglie sono composte da cinque foglioline con margine dentellato. Nella parte inferiore troviamo
una sottile peluria di colore bianco-argenteo e piccole spine lungo il picciolo e lungo le nervature.
Ora che abbiamo visto come riconoscerla e dove trovarla, parliamo più nello specifico dei suoi
principi attivi e delle molteplici proprietà tipici di questa pianta selvatica.
Le More e tutta la pianta sono un concentrato di antiossidanti, hanno un alto contenuto di agenti
antiossidanti, fra cui antocianine, catechine, tannini, quercetina, acido gallico che contrastano
l’azione dei radicali liberi.


I tannini hanno azione antinfiammatoria e vasocostrittrice, cioè restringono i vasi sanguigni
accelerando la guarigione di eventuali ferite.
Ricche di Vitamina C, anch’essa un potente antiossidante, svolgono funzioni importanti in processi
fisiologici, fra cui la risposta immunitaria.
Contengono vitamina A, coinvolta nei processi della visione, vitamina E che protegge la pelle e
vitamina K, importante per la salute delle ossa e della coagulazione sanguigna.
Anche le vitamine del gruppo B sono ben rappresentate, fra cui l’acido folico (il loro consumo è
consigliato in gravidanza).
Ricca di fibre, sia solubili che insolubili. Fra le fibre solubili troviamo la pectina, che aiuta a ridurre
i livelli di colesterolo nel sangue e coadiuva i processi digestivi, oltre che favorire l’assorbimento
del glucosio e migliorare quindi i livelli di glicemia. Le fibre insolubili facilitano invece il transito
intestinale e danno un senso di sazietà.


Non mancano i Sali minerali con un alto contenuto di rame, minerale importante per il metabolismo
delle ossa e dei globuli rossi e bianchi. Anche magnesio, calcio, ferro, zinco e manganese sono
presenti.
Non dimenticando le proprietà diuretiche, grazie al buon contenuto di potassio e di acqua (88%),
conferiscono proprietà idratanti e depurative.

Come abbiamo visto in precedenza possiamo utilizzare praticamente tutte le parti della pianta:
radici, foglie, frutti e germogli.

Vediamo come utilizzarli al meglio:

I frutti oltre ad essere consumati freschi possono essere utilizzati per fare marmellate, macedonie,
guarnizione per dolci o yogurt, gelati ma anche per la preparazioni di succhi, sciroppi, vini
aromatizzati, grappe e acquaviti.
Con i germogli possiamo fare risotti, frittate, bevanda ai germogli ma anche un decotto di rovo
aggiungendo anche le foglie. Grazie, infine, alle proprietà astringenti può essere utilizzato per fare
gargarismi per curare faringiti e mal di gola. Insomma, chi ne ha più ne metta.

Il rovo selvatico: IMPIEGHI SURVIVAL E BUSHCRAFT

Utilissima in natura così come in fitalimurgia, infatti dai suoi rami, possiamo estrarre della fibra
vegetale, che dopo essere stata adeguatamente lavorata ci permette di ottenere un ottimo cordame
resistente.
Il periodo ottimale per la raccolta è la primavera e l’inizio dell’estate quando i rami sono verdi e
ancora non molto legnosi.
Recidiamo il fusto il più possibile vicino alla base in modo da ricavare un pezzo più lungo possibile,
puliamo il ramo togliendo tutte le spine e le foglie.
Un consiglio che posso darvi è di iniziare dall’apice raschiando verso il basso, verranno via più
facilmente poiché è la direzione opposta, sia delle spine che delle foglie, e mi raccomando, per fare
questa operazione utilizzate dei guanti ben spessi e soprattutto il dorso del coltello e non il filo.
Una volta tolto il tutto iniziamo a lavorare togliendo molto delicatamente la parte esterna della fibra
per poi arrivare al cuore del fusto.


Per fare questa operazione ci servirà un ciocco di legno che utilizzeremo per picchiettare su tutta la
lunghezza in maniera che le fibre si dividano tra loro. Successivamente a questa operazione la parte
legnosa verrà via quasi naturalmente lasciando la fibra, che poi effettivamente lavoreremo, per
ottenere il cordame.
A questo punto prendiamo le fibre ricavate, cerchiamo il centro, facciamo un’asola e iniziamo ad
intrecciarle per qualche giro in senso orario e poi cambiamo girando in senso antiorario per tutta la
lunghezza.
In questo modo ricaviamo un cordino molto resistente, tra i più resistenti che possiamo produrre in
ambienti outdoor.

Il Rovo Selvatico : CURIOSITA’


Le More vengono utilizzate per la preparazione di tinture naturali per tessuti.
Raccogliendo il frutto ad inizio autunno, possiamo realizzare colori che vanno dal lavanda chiaro al
blu grigio, mentre con le foglie possiamo creare tonalità dal giallo-verde al petrolio carico e grigio
scuro.
Molto utilizzata anche per fare coloranti alimentari naturali. Venivano utilizzate anche in alcuni riti
pagani per il culto di alcune divinità.
Poi ci sono gli usi magici.


Un cespuglio di rovi che forma un arco naturale è un grande rimedio curativo.
In una giornata di sole scuotetelo avanti e indietro per tre volte, cercando di tenere il più possibile
la direzione est-ovest, scompariranno i foruncoli e i punti neri, reumatismi e tossi convulse.
Le foglie e le more sono adoperate nei riti di ricchezza, i cespugli di more sono protettivi.
La pianta era adoperata per curare le scottature, vediamo come!
Si immergevano nove foglie di rovo in acqua di sorgente e si applicavano poi con delicatezza sulle
bruciature ripetendo per ventisette volte (tre per ogni foglia) le seguenti parole magiche: “Tre donne
vennero dall’Est./Una col fuoco e due col ghiaccio./Via il fuoco, che rimanga il ghiaccio”.
Era una invocazione a Brigitte, dea celtica della poesia e della salute.

Ed anche questa puntata del Giardino di Kalì è giunta al termine,
Spero davvero vi sia piaciuta.

A presto, Kali.

Fiori di Bach: la Clematis Vitalba, Ranuncolacee

Tutto sulla Clematis Vitalba pianta spontanea e commestibile

Oggi vorrei parlavi della Clematis Vitalba, una pianta molto comune e tipica del
nostro territorio.
Iniziamo subito col dire che fa parte della famiglia delle Ranuncolacee e che in
passato era molto conosciuta per le sue proprietà officinali che venivano sfruttate da
esperti farmacisti poiché in determinate dosi risulta essere tossica e vescicatoria.
Vediamo nello specifico le sue proprietà, la conformazione e come poterla utilizzare.

Come è fatta la Clematis Vitalba?

E’ un arbusto perenne con portamento rampicante, i suoi rizomi possono arrivare fino
a 12 metri di lunghezza. Per la sua rapida crescita e facile propagazione viene definita
infestante poiché soffoca la vegetazione arborea circostante. Come dicevamo, è una
pianta molto comune nel nostro territorio, la possiamo trovare fino a 1300 mt in terre
incolte, boschi di latifoglie e macchie temperate ma anche ai margini di fossati e
torrenti.
Il suo fusto legnoso è ricoperto da una leggera peluria mentre le foglie a forma
lanceolata sono un po’ dentate e irregolari.
La fioritura va da Maggio a Luglio e i suoi fiori sono a sepali petaloidi giallognoli o
bianco verdastri e sono profumati, riuniti in pannocchie.
I frutti sono acheni con coda piumosa.
Le parti commestibili della Vitalba sono i germogli detti “Vitalbini” e le piccole
foglie giovani ed il periodo migliore per la raccolta è la primavera quando la pianta
ancora non è pericolosa. Infatti è nel periodo più caldo che produce quei principi
attivi che sono maggiormente pericolosi.

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Perchè la clematis Vitalba è pericolosa?

Usiamo questo termine perché i principi attivi della Clematis Vitalba sono alcaloidi
vegetali, come la Coprotoanemonina, che è una sostanza volatile, irritante che
mediante essiccazione o bollitura si trasforma in anemonina che è una sostanza
assolutamente innocua. Presenta inoltre saponine, materie resinose, pectine,
fitosterolo.
Sempre in piccole dosi, in cucina, la Vitalba può essere utilizzata in cucina per
preparare frittate minestre e zuppe.
In passato le piccole foglie venivano utilizzate per preparare cataplasmi per la cura
della sciatica della gotte e dei reumatismi mentre le foglie essiccate venivano
utilizzate per preparare un infuso ad azione diuretica e i germogli, in infuso, come
purgante e per curare infiammazioni, depressione e amnesie.
Oggi molto raramente viene usata a scopo terapeutico poiché in dosi eccessive il
contenuto di saponine e alcaloidi la rendono una pianta irritante e caustica.
Non dimentichiamo una cosa molto importante, che nonostante la sua potenziale
tossicità rientra nella lista dei Fiori di Bach.

 

Impieghi di clematis Vitalba in sopravvivenza e bushcraft

La Vitalba presenta una parte esterna legnosa e rigida ed una parte interna più
morbida e flessibile. Affinché possa diventare un materiale intrecciabile, bisogna
rimuovere la parte esterna.
Se la liana ha un anno, questa operazione si esegue facilmente facendo leva con il
dito nella parte centrale a due nodi della liana, spaccando la parte rigida e
rimuovendola e, successivamente, pulendo i nodi anche con l’aiuto di un coltello.
Se le liane sono più vecchie, è necessario bollirle per poi poterle spelare agevolmente
dalla parte esterna.
Si ottengono lunghi cordoni, da arrotolare su se stessi e mettere a seccare, in un
luogo asciutto ed areato.
Si può anche mettere a seccare la liana prima di ripulirla dalla parte esterna e
successivamente farla bollire per poi sbucciarla.

 

Curiosità sulla Clematis Vitalba

Veniva chiamata anche “Erba dei Pezzenti” perché in passato veniva utilizzata dai
mendicanti per provocarsi ferite e lacerazioni per poter scatenare la compassione dei
passanti e poter ricevere maggiori offerte.
Oppure veniva usata come surrogato del tabacco, cosa che oggi è molto sconsigliata.


 

Dizionario dei termini tecnici utilizzati

Di seguito potete trovare qualche spiegazione su alcuni termini più tecnici che ho utilizzato:
SAPONINE: Le saponine sono contenute in centinaia di piante e sono
così abbondanti da raggiungere anche il 30% del peso secco della pianta.
Sono in grado di abbassare la tensione superficiale in soluzioni acquose e sono capaci
di formare soluzioni colloidali schiumeggianti, quindi si possono usare come
emulsionanti.
Possono essere molto pericolose: l’iniezione per via parenterale determina emolisi mentre l’assunzione per via orale non produce quest’effetto velenoso.
ALCALOIDI: Gli alcaloidi sono composti organici azotati da utilizzare con estrema
cautela in quanto hanno effetti sia deprimenti, sia eccitanti e, agendo direttamente sul
sistema nervoso, possono produrre effetti molto pericolosi.
CATAPLASMA: preparazione molle ottenuta da decotti di erbe o di farine di semi,
cortecce e radici che veniva applicata su una parte del corpo ed aveva effetti
cicatrizzanti, emollienti ed antinfiammatori.
SEPALI PETALOIDI: E’ una parte del fiore in cui la corolla è composta da petali
separati tra di loro.
ACHENI: Frutto secco con un solo seme, con parete coriacea (aspetto e consistenza
simile al cuoio) aderente al seme, ma non saldata a esso (per es. la castagna).

Marta “Kalì” Andreassi tiene la rubrica “Il giardino di Marta” per Survival School SOS2012. Redazione di Vincenzo “Wolfman” Barone

IL PIU’ ANTICO AMO DA PESCA.

Circa sette anni fa precisamente nel 2011, gli archeologi della Australian National University, sono riusciti a dimostrare attraverso mirate scoperte, le forme più antiche di pesca mai esistite. Addirittura sin dai tempi della preistoria, i nostri antenati praticavano pesca d’alto mare, riuscendo a catturare tonni ed altre specie di grossi pesci.

Una squadra di archeologi con a capo la professoressa Sue O’Connor, ha addirittura portato alla luce, il più antico amo da pesca, rinvenuto all’interno della caverna di Jerimalai, precisamente a Timor Est.
Da questa scoperta, si è giunti alla conclusione che gli antichi pescatori (esisititi circa 20 o addirittura 30.000 anni fa), conoscevano tecniche avanzate di marineria, tanto da renderli capaci di pescare a km dalla riva.

Celebre, fu il pensiero espresso da un vecchio archeologo, il quale dichiarava di aver rinvenuto un amo da pesca costruito da una conchiglia. L’amo faceva riferimento ad un periodo distante ormai 23.000 anni, aggiungendo inoltre come i nostri antenati fossero astuti a realizzare artificiosi strumenti oltre che per la caccia, anche nella pesca. L’archeologo concluse dicendo che probabilmente furono costruiti altri tipi di ami, oltre a quello scoperto.

Considerando il fatto che alcuni uomini del Pleistocene raggiunsero l’Australia circa 50.000 anni fa, lascia ben immaginare come questi fossero colmi di conoscenze, tanto da farli pescare a grossissime profondità nel mare.
Circa 100.000 anni fa, diversi esseri umani raccoglievono crostacei e conchiglie che risiedevano sul fondo dei mari, dove l’acqua era bassa. Prima di allora, i più antichi strumenti di attrezzatura marina, facevano riferimento ad un periodo che non superava i 12.000 anni fa.
Si è anche a conoscenza che, il più antico amo mai scoperto prima (oltre a quello di Timor Est), risalga a circa 5.500 anni addietro.

Prima di questa scoperta, già nelle caverne di Blombos (in Sud Africa), furono ritrovati un numero elevatissimo di ossa di pesce. Questi facevano riferimento ad esemplari che vivevano in acque del mare non eccessivamente profonde, ma stiamo comunque parlando di circa 140-150.000 anni fa, questo fa ben capire le profonde conoscenze marine che possedavano gli uomini già a quel tempo. C’è da aggiungere però che la cattura di questi pesci, richiedeva senz’altro un livello di tecnologia, ben più facile rispetto a quello utilizzato a Timor Est.

La scoperta rivenuta a Timor Est, ha mostrato agli occhi di tutti gli esperti, quanto ingegnosi e preparati fossero gli antenati del Sud-Est Asiatico. Gente capace di catturare già a quell’epoca, esemplari di pesci difficili ancora oggi da pescare, tra tutti i tonni.
Ciò fa immaginare quanto affascinante possa esser stata questa scoperta.

Non si è mai giunti alla conclusione, come la gente di Jerimalai riuscisse a pescare alcuni pesci pelagici o quelli che viveano ad acque basse. Diverso invece, il discorso sul tonno. Pesci del genere potevano esser catturati solo attraverso la realizzazione di grossi ami o attraverso la tecnica delle reti. In entrambi i casi, si resta ancora stupefatti nel realizzare come già a quell’epoca si fosse a conoscenza di tecniche che utilizziamo ancora noi oggi a distanza di circa 100.000 anni fa.

La professoressa, Sandra Bowler, della University of Western Australia, giudica le capacità degli uomini di Timor Est, come ben consolidate. A fargli eco, il professor Ian McNiver, che giudica questa clamorosa scoperta come “Nulla di simile al mondo”.

Molto importante da sottolineare comunque, come il livello del mare si sia alzato oggi di circa 60-70 metri rispetto a circa 40.000 anni fa. Questo fa purtroppo pensare come diversi altri centri di pesca del Pleistocene, siano andati persi, sommersi dalle profondità marine.

Tra tutti gli ami da pesca dell’antichità rinvenuti, quelli che appaiono di più difficile realizzazione restano quelli in conchiglia. Quest’ultimi restano i più simili a quelli ancora oggi utilizzati, ma lasciamo a voi pensare quanto difficili fossero da costruire, utilizzando strumenti primitivi, come ad esempio il trapano ad arco.

Il Tourniquet: il salvavita del combattente.

Premessa

Tra tutte le cause di morte che si registrano in una qualunque spedizione di combattimento, quella con la percentuale più alta è quasi sempre dovuta per emorragie di tipo massivo.
Ogni buon operatore, prima di intraprendere la strada che lo porterà ad affrontare ardue prove, dovrebbe essere formato opportunamente sulle tecniche principali di primo soccorso tattico in combattimento: Tactical Combat Casualty Care (TCCC) o Combat Trauma First Aid (CTFA).
Ciò che l’operatore andrà ad apprendere, garantirà a lui e all’intero team la capacità di saper attuare un intervento di soccorso immediato, prima che giungano i soccorsi qualificati.
Da un punto di vista psicologico, risulta estremamente positivo, essere a conoscenza che un tuo collega sarà in grado di soccorerti correttamente in caso di disperato bisogno.

Rivolgendo lo sguardo nuovamente alle emorragie, si è a conoscenza che la maggior parte dei protocolli di soccorso, prevedono il tamponamento compressivo, come primo intervento da applicare sulla ferita. C’è da sottolineare però come questo metodo non sia sempre efficace, basti ad esempio pensare nel caso in cui qualcuno avesse bisogno durante l’attacco del fuoco nemico, o peggio ancora se fossero più persone contemporaneamente a necessitare di un intervento di primo soccorso.

Il Tourniquet

È proprio in queste circostanze che occorerebbe avere a portata di mano il (Combat Application Tourniquet), chiamato abberviatamente CAT.
Scopriamo insieme cos’è e come si utilizza.

Il CAT, in parole povere non è altro che un sistema emostatico capace di essere applicato rapidamente, sistema capace di garantire al combattente ferito una vera e propria ancora di salvezza per la propria vita. Questo speciale laccio emostatico, è un elemento fondamentale che mai dovrebbe mancare nel kit a portata di mano di un qualsiasi operatore.

Dopo aver descritto cos’è il Combat Application Tourniquet, andiamo a scoprire come si utilizza.
Come prima cosa, è importante sapere che il CAT deve essere utilizzato solo ed esclusivamente in casi veramente estremi. Questo speciale laccio emostatico, garantisce l’emostasi, applicandolo nel punto esatto della ferita, ma arrestando completamente il circolo del sangue dal punto in cui applicato, il ferito sarà a rischio ischemia, in quanto i tessuti circostanti riceveranno da quel momento in poi minor afflusso di sangue.
Per questo motivo, è fondamentale sapere che il Tourniquet potrà essere tenuto dal ferito, per un tempo massimo inferiore alle due ore e che quest’ultimo dovrà essere rimosso solo ed esclusivamente dal personale medico qualificato.

Vista l’estrema importanza del Tourniquet ed essendo un dispositivo di autosoccorso, è fondamentale ricordare di posizionare questo oggetto in una posizione comoda e di facile reperibilità. È consigliato tenerlo all’interno di una tasca anteriore del giubino (combat jacket), oppure in un punto dello zaino a spalla, purchè questo sia estremamente facile da raggiungere da ambo le mani.

Lo scopo di questo articolo in generale, serve a far conoscere alcune importanti nozioni per mettere in atto un intervento di soccorso corretto e nello stesso tempo qualificato, è importante specificare però che certe tecniche non possano essere apprese tramite web e che sarà necessario frequentare appositi corsi per esser davvero pronti ad attuare un soccorso di portata simile.

L’Antartide in solitaria: Henry Worsley

Seguire le orme dei propri eroi può essere un obiettivo sorprendente, ma per l’esploratore antartico Henry Worsley, il suo sogno di attraversare l’Antartide completamente da solo è finito in tragedia. Ispirato dagli esploratori incredibilmente tenaci, competitivi e testardi dei primi anni del 1900, la spedizione Worsley Antarctic del 2015 è stata un tentativo di ricreare un viaggio fatto da Ernest Shackleton, cent’anni prima, ma mai portato a termine. Purtroppo, Worsley ha subito un destino simile.

Worsley aveva familiarità con l’Antartide, avendo già ricreato diverse spedizioni fatte dai suoi eroi, negli anni precedenti. L’itinerario di Henry Worsley si estendeva dal Polo Sud fino alla riva opposta del continente. Anche se Henry Worsley era un esploratore di grande esperienza, le temperature estreme dell’Antartide, i venti pericolosi e l’atmosfera inquietante generale si rivelarono invincibili. Il tentativo di Worsley di realizzare un sogno pericoloso finì in tragedia, simile alle avventure intraprese da viaggiatori come Robert Scott o Christopher McCandless. Il funerale di Henry Worsley è stato un giorno triste per la comunità di esploratori, ma i selfie e il diario audio che ha lasciato raccontano una storia incredibile.

Ha programmato di viaggiare per più di 900 miglia, con una media di 13 ore al giorno per attraversare il continente
Nel novembre del 2015, Henry Worsley ha iniziato il suo viaggio dall’isola di Berkner nella parte nord-occidentale dell’Antartide. Aveva in programma di completare il suo viaggio in 75 giorni, dal Polo Sud sino al lato opposto dell’Antartide. Il suo percorso lo avrebbe portato a più di 1.000 miglia da dove aveva iniziato. Worsley aveva programmato di camminare mediamente per 13 ore al giorno, portando con sé le sue scorte per tutto il tempo.

Raggiunse il Polo Sud nel giorno 51 del suo viaggio. Le prime persone che vide dopo molto tempo erano quelle che vivevano all’Amundsen-Scott South Pole Station, una struttura di ricerca che studia la geofisica delle regioni polari della Terra. Poiché era intento a fare un viaggio da solista, Worsley rifiutò le loro offerte di provviste e cibo. Proseguì, salendo a 9.700 piedi sulla Cupola del Titano pochi giorni dopo. Durante il suo viaggio, Worsley registrava un diario audio e scattava selfie, immagini che mostrano chiaramente la sua crescente stanchezza e il deterioramento della sua salute.

Non poteva portar con se abbastanza cibo per compensare la quantità massiccia di calorie bruciate

Worsley portò cibo a sufficienza per 80 giorni, cinque giorni in più di quanto pensasse che il viaggio avrebbe richiesto. Si aspettava di perdere circa 12 kg durante il suo viaggio, dal momento che camminare mentre si tira una slitta che pesa quasi 150 kg richiede molta energia. Poteva bruciare fino a 10.000 calorie in un solo giorno ma trasportare abbastanza cibo per non dimagrire così eccessivamente, sarebbe stato impossibile. Inoltre, il cibo di Worsley con il passare del tempo, si congelò a causa dalle temperature gelide dell’Antartide, e il povero esploratore lo constatò personalmente proprio addentando uno snack congelato che gli costò la rottura di un dente.

Nei diari audio di Worsley si faceva chiaro riferimento al cibo, e parlava specificamente di quanto gli mancasse consumare del cibo spazzatura: nel suo ultimo diario audio disse che la prima cosa che avrebbe fatto una volta tornato a casa, era quella di gustarsi una tazza di thè e una fetta di torta. Quando Worsley fu salvato, aveva perso quasi 50 kg e soffriva di disidratazione ed esaurimento.

Il viaggio di Worsley fu reso difficile da neve soffice, temperature estremamente fredde e venti terribilmente forti
L’avventura di Worsley iniziò abbastanza discretamente – la neve era uniforme e ferma, il che rendeva relativamente facile camminare lungo il percorso prefissato. Tuttavia, la temperatura iniziò a calare mentre si avventurava nell’entroterra, e la superficie della neve diventava sempre più pesante. Durante il giorno 55, Henry Worsley sul suo diario appuntò la registrazione di temperature gelide sino a meno 47 gradi Fahrenheit e parlava di venti che soffiavano da 40 a 50 miglia all’ora. Il giorno 66, fu quello in cui esprimeva a chiare lettere l’inesorabile fatica: “La crudeltà … la neve è molto tenera, ora sono sempre più debole ed è l’ultima cosa di cui avevo bisogno.” E incitandosi in terza persona: “Worsley, sbrina quella poca energia che ti rimane.”
Worsley fu colpito da una grave infezione, che lo portò alla morte
Dopo che Henry Worsley contattò la sua squadra di supporto per salvarlo, fu portato in aereo in un campo a sei ore di distanza e poi a Punta Arenas, in Cile. I medici inizialmente credevano che Worsley fosse malato a causa della disidratazione e dell’esaurimento, ma successivamente scoprirono che soffriva di peritonite batterica, una grave infezione dell’addome. Sebbene i medici tentarono un intervento chirurgico, il corpo di Worsley era troppo debole per combattere l’infezione e il 25 gennaio 2016 all’età di 55 anni venne dichiarato morto.

L’avventura di Henry Worsley si concluse così a soli 30 miglia dal completamento del suo viaggio programmato. Un ex membro del British Antarctic Survey dichiarò che nonostante quasi prossimo alla meta, Worsley pensò bene di prendere la giusta decisione ritirarsi, aggiungendo: “Ha fatto una cosa intelligente, ma purtroppo il suo sistema immunitario è stato deteriorato così tanto che non è riuscito a recuperare”.

Worsley fu costretto a dire fine alla sua avventura a soli 30 miglia dalla meta
Henry Worsley percorse eroicamente da solo l’Antartide per più di 900 miglia, cambiando la biancheria intima una sola volta. Sfortunatamente, dopo più di 65 giorni di viaggio nella terra più inospitale del mondo, fu costretto a fermarsi a 30 miglia dal suo obiettivo. Il ritmo di Worsley divenne sempre più lento negli ultimi giorni del suo viaggio, causa dell’inesorabile stanchezza, ma soprattutto dall’avanzare dell’infezione di cui non era a conoscenza.

Tenne testa addirittura ad una tempesta che causò la morte di una colonia di pinguini, proteggendosi per due giorni interi all’interno della sua tenda. La squadra di soccorso che monitorava i suoi progressi si preparò al suo recupero, ma si rifiutò di intervenire fino a quando Worsley non diede il segnale. Alla fine, contattò il suo team di supporto sapendo che era troppo stanco per viaggiare oltre, e fu soccorso.

Il viaggio di Worsley, portò introiti che furono devoluti in beneficenza al fondo Endeavour

Henry Worsley era un veterano dell’esercito britannico e aveva un grande rispetto per i suoi commilitoni. Era anche amico del Duca di Cambridge, che contribuì a finanziare il secondo viaggio di Worsley in Antartide. Nell’ultima visita al continente ghiacciato, Worsley intendeva raccogliere fondi per “The Endeavour Fund”, gestito dal Duca e dalla Duchessa di Cambridge, così come dal principe Harry. Worsley scelse di sostenere la fondazione a causa del suo rapporto amichevole con il duca. Sebbene non sia stato in grado di completare il suo viaggio, Worsley ha raccolto più di $150.000, cifra che si raddoppiò non appena le donazioni furono versate dopo la notizia della sua tragica scomparsa.
I primi esploratori dell’Antartide, legati da uno stesso destino
Dal momento che nessuna nave ha mai viaggiato abbastanza vicino, gli esploratori non hanno scoperto l’Antartide fino al 1820 circa. Robert Falcon Scott fece il primo tentativo di raggiungere il Polo Sud nel 1901 con l’esploratore Ernest Shackleton, ma non riuscirono mai a raggiungerlo. Shackleton tornò nel 1907, ma, ancora una volta, fu costretto a fermarsi a 97 miglia dal suo obiettivo. Scott tornò diversi anni dopo, ma morì anche lui prima che venisse tratto in salvo. Shackleton ritornò nel 1915 tentando nuovamente di attraversare il continente, che è inoltre la stessa avventura che Worsley stava tentando di replicare quando morì.
Il viaggio sfortunato non fu il primo viaggio di Worsley in Antartide
Henry Worsley eseguì il suo primo viaggio in Antartide nel 2008, conducendo una squadra il cui obiettivo era quello di ripercorrere il secondo tentativo di Ernest Shackleton, ovvero quello di raggiungere il Polo Sud durante la sua spedizione Nimrod del 1907. Shackleton con il suo gruppo al seguito percorsero 97 miglia, quando la mancanza di cibo e il maltempo li costrinse a rinunciare e a ritirarsi. La squadra di Worsley seguì il percorso di Shackleton attraverso le Montagne Transantartiche attraverso il ghiacciaio Beardmore, e completò ciò che Shackleton non riuscì raggiungendo il Polo Sud. Nel 2011, Worsley tornò in Antartide con una squadra di sei membri con lo scopo di percorrere un percorso dalla Baia delle Balene attraverso la piattaforma di ghiaccio di Ross.
La lontana parente di Henry Worsley viaggiò in Antartide con Ernest Shackleton
Worsley aveva buone ragioni per essere ossessionato dagli esploratori artici come Ernest Shackleton; era infatti un lontano parente di Frank Worsley, che aveva viaggiato con Shackleton nel suo viaggio del 1914. L’anziano Worsley era skipper dell’Endurance, che venne usato durante una spedizione antartica in cui Shackleton progettava di attraversare il continente a piedi. L’Endurance rimase bloccato nel ghiaccio prima di raggiungere la terra ferma, e affondò, lasciando i 28 membri dell’equipaggio in condizioni estremamente difficili. Shackleton, Worsley e altri andarono a cercare aiuto, viaggiando per 800 miglia su terra e mare. Henry Worsley fu stupito di storie di straordinaria avventura e sopravvivenza. Nel suo ultimo viaggio in Antartide, tentò di finire ciò che Shackleton non potè concludere nella sua spedizione Endurance.
Worsley fu il primo a cercare di attraversare l’Antartide con rifornimenti a bordo
Henry Worsley stava tentando di attraversare l’Antartide completamente da solo e senza assistenza. Sebbene sia stato il primo a tentare l’impresa, altre persone hanno compiuto incredibili sfide in Antartide. Nel 1997, l’avventuriero norvegese Borge Ousland tentò la prima spedizione in solitaria per il continente, ma piuttosto che camminare, usò un aquilone parafoil.

Anche l’esploratrice britannica Felicity Aston completò con successo un viaggio nel 2012. Attraversò l’Antartide viaggiando da sola, ma dispose prima scorte di rifornimento lungo il percorso, così da non trasportare troppo materiale che l’appesantisse ulteriormente. Il tentativo di Worsely fu diverso dagli altri poichè portava con sé tutto il necessario per l’intero viaggio, tirando fisicamente una slitta su cui vi era la sua tenda, il cibo e altre attrezzature necessarie per tutto il tempo.

Oltre ad essere follemente freddo, l’Antartide ha molti pericoli come venti forti e crepacci mortali nascosti
Ci sono molte ragioni per cui l’Antartide è considerato uno dei luoghi più inospitali della Terra e un’area estremamente pericolosa in cui viaggiare da soli . La maggior parte delle persone sa che il continente è il posto più freddo del pianeta, ma l’Antartide è anche il più arido e il più ventoso. Le montagne transantartiche si trovano nella parte occidentale del continente e il percorso intrapreso da Worsley le attraversava. I venti che raggiungono fino a 200 miglia all’ora possono essere mortali perché causano condizioni di oscuramento. Inoltre è facile incontrare crepacci profondi nascosti da una piccole quantità di neve, che possono rivelarsi fatali. Ci sono ottime ragioni per cui nessun essere umano vive in modo permanente in Antartide.
Alla sua morte, Worsley divenne un eroe nazionale in tutta l’Inghilterra
Molte persone furono devastate dalla notizia della tragica morte di Henry Worsley, a prescindere se lo avessero conosciuto personalmente o meno. La nipote di Ernest Shackleton, sottolineò la sua morte come una grande perdita per la comunità avventurosa. Il duca di Cambridge e il principe Harry, che contribuirono a organizzare l’organizzazione benefica per la quale Worsley stava raccogliendo denaro, lo definirono fonte di ispirazione e come un personaggio pieno di coraggio. Il principe William, così come il capo dell’esercito britannico, espressero tutta la loro tristezza. Paul Rose, ex comandante di base del British Antarctic Survey, elogiò Worsley per aver riflettuto sulla sua avventura prima di partire e per il buon senso che ebbe nel contattare la sua squadra di soccorso prima che le cose diventassero ancora più pericolose. Persino David Beckham, che una volta incontrò Worsley durante una raccolta di fondi, si fece avanti per esprimere dispiacere verso la sua scomparsa.

La Bussola

La bussola, è riconosciuta come il primo strumento indispensabile per la navigazione. Questa è essenziale sia per le grandi distanze, sia per orientarsi nel più breve tempo possibile per raggiungere una meta.
La bussola, si divide in due categorie: quella MAGNETICA e quella AMAGNETICA. La prima sfrutta i principi del magnetismo, la seconda i principi dinamici.
La bussola Magnetica, è quella che viene adoperata su tutte le imbarcazioni. Quella Amagnetica, invece la troviamo installata su alcuni veicoli speciali ma principalmente su navi di grandi dimensioni.
Funzionamento della bussola Magnetica
Prendiamo un cartoncino, al di sotto di esso, poniamoci una barretta magnetica, mentre sulla superficie spargiamoci della sottile polvere di ferro. Vedremo subito che quest’ultima si disporrà sino a formare delle linee, precisamente intorno alla posizione assunta dalla calamita.

Lo spazio in cui agiscono sia le forze di attrazione, sia quelle di repulsione di una calamita, viene riconosciuto come CAMPO MAGNETICO. Le linee di forza del campo magnetico, assumono una forma chiamata SPETTRO.
Due sono le polarità che contraddistinguono una calamita, il Polo Sud e il Polo Nord. Due diverse calamite, possiedono entrambe i due poli, per questo motivo hanno la capacità sia di attrazione, sia di repulsione tra loro:
una calamita attira al proprio polo sud, il nord dell’altra, respingendone di conseguenza il sud.
Un’antica legge, recita che: “… i poli uguali si respingono mentre i poli opposti si attraggono.

Se prendiamo come riferimento la terra, che è un immenso magnete, capiremo che intorno al globo esiste un campo magnetico, esattamente come quello spiegato precedentemente con la polvere di ferro sulla superficie di un cartoncino.
In questo caso a formare lo spettro, ci pensano delle linee immense che escono dal polo nord e finiscono al polo sud.

Prendendo in considerazione il principio dei poli opposti, capiremo che qualunque magnete capace di ruotare, se posto sulla superficie terrestre, tenderà ad orientare il proprio sud verso il nord e viceversa.
Questo è esattamente ciò che svolge l’ago della bussola. I poli, sia il sud, sia il nord vanno ad allinearsi parallelamente alle linee dello spettro magnetico della terra. Ciò avviene in quanto la bussola, non è nient’altro che un leggero e sottilissimo magnete.

A falsare il funzionamento della bussola nell’indicazione corretta del nord, a volte avvengono delle anomalie, causate o da metalli che si trovano posizionati in prossimità della stessa, oppure dovute a causa di conformazioni geologiche. Prendendo come riferimento il primo caso, queste vengono definite DEVIAZIONI, mentre considerando il secondo caso, queste vengono definite DECLINAZIONI.
Per comprendere meglio, quanto appena detto, facciamo nuovamente riferimento all’esempio del cartoncino, precedentemente descritto.
Se al centro del cartoncino, piantiamo un chiodo di ferro, vedremo che le linee formate dalla polvere ferrosa, formeranno intorno ad esso dei cerchi che lo aggireranno, andando così a deformare lo spettro rispetto a com’era precedentemente.

Se potessimo ingrandire enormemente la calamita, il cartoncino e il chiodo, sino a riuscirci a camminare sopra, tenendo stretta una bussola tra le mani, vedremmo che avvicinandoci sempre più al chiodo, l’ago della bussola, non indicherebbe più perfettamente il polo nord del magnete, ma andrebbe ad orientarsi parallelamente alle linee dello spettro in quel preciso punto ed indicherebbe il nord da tutt’altra parte.

Per entrambe le aberrazioni, l’uomo è comunque riuscito a porre dei rimedi.

Su qualsiasi carta nautica, viene indicata la declinazione della zona in cui ci troviamo, così come su ogni imbarcazione troviamo la tabella delle deviazioni, dovute a tutti i materiali ferrosi, posti al di sopra di essa, come ad esempio i motori, i corrimano, i ferri di bordo, gli impianti elettrici e il sartiame.
La deviazione della barca, è sempre identica per la stessa, ma cambia in base a come la prua è orientata verso il nord. La tabella delle deviazioni, viene invece impartita da un tecnico detto Perito Compensatore. Questo, girerà a terra intorno all’imbarcazione con una bussola, rilevando le correzzioni da apportare allo strumento, per la corretta indicazione del nord.

Composizione di una bussola
MORTAIO: involucro esterno, contenente tutto il resto;
EQUIPAGGIO: piccoli magneti in gruppo, di numero dispari;
SUPPORTO: base galleggiante, su cui è posto l’equipaggio;
PERNO: asse su cui ruota il supporto;
LIQUIDO ANTICONGELANTE: questo sostiene il supporto galleggiante dove è posto l’equipaggio e serve a diminuire l’attrito che si forma tra il perno e il supporto;
CALOTTA TRASPARENTE: sigilla la bussola nella parte superiore;
ROSA DEI VENTI: disegno nel quadrante della bussola, posto sotto il mortaio.

Metodi e segnalazioni per chiedere aiuto

PREMESSA
Oggi giorno, grazie ai sistemi tecnologici di localizzazione che fanno parte della nostra quotidianità, i naufraghi di una nave, i superstiti di un aereo, saranno senza ombra di dubbio ricercati da qualcuno.
Conoscendo l’orario del proprio rientro, qualcuno si accorgerà inevitabilmente del loro ritardo e avviserà le autorità competenti.
Quando si ha bisogno di soccorso, bisogna infatti avere molta fiducia nelle squadre, che si metteranno da subito in moto non appena ricevuto l’avviso.
Nel caso in cui un gruppo di turisti si è perso e qualcuno si è ferito, bisogna come prima cosa accendere un fuoco che faccia molto fumo, affinchè un elisoccorso riesca a localizzare la posizione dei dispersi.
La prima regola, affinchè i soccorsi arrivano nel più breve tempo possibile, sta nel far conoscere la propria posizione, la situazione in cui i dispersi versano e di ciò che si ha bisogno.

SOS (Save Our Ship in inglese e in italiano Soccorso Occorre Subito), è il segnale per chiedere aiuto più conosciuto. Queste tre lettere descrivono il segnale universale di richiesta di soccorso immediato e può essere comunicato attraverso l’alfabeto morse, via radio o scritta.
Il modo più semplice e accessibile a tutti, anche ai meno esperti è quello di esprimerlo in codice morse, ovvero: tre punti, tre linee e tre punti (· · · — — — · · ·).
Tale codice venne usato per la prima volta a Berlino nel 1906, durante la seconda conferenza radiofonica internazionale.
Naturalmente i metodi più veloci per richiedere immediato soccorso, restano quello via telefono o radio.

Il segnale parlato, più famoso al mondo e che viene utilizzato nelle comunicazioni in fonia è la parola “Mayday” (la cui pronuncia è meidei e sta a significare pericolo imminente e grave).
Questa espressione, viene utilizzata dal 1927 e fu proposta da Frederick Stanley Mockford nel 1923 presso l’aeroporto di Croydon a Londra. Venne modificata l’espressione francese “m’aider” (aiutatemi).
Nel caso di pericolo imminente, bisogna ripetere la parola per tre volte consecutive. Fatto ciò, bisogna comunicare ai soccorritori, la propria posizione, le condizioni e la natura del pericolo in vista.

SEGNALI DI EMERGENZA
– Segnali di fuoco e fumo:

Il metodo più efficace, affinchè vengano rilevate le persone in difficoltà dalle squadre di soccorso, resta il fuoco sia durante il giorno, sia durante la notte.
Durante le giornate limpide e poco nuvolose, bisogna che accendiate un fuoco capace di produrre molto fumo denso. Affinchè ciò avvenga, bisognerà dar fuoco a foglie verdi, muschio, rami non troppo secchi e fieno umido.
Durante le giornate grige e nuvolose, bisognerà invece accendere un fuoco che produca del fumo nero. In questo caso, bisognerà dar fuoco a gomme, a stracci imbevuti di olio o benzina o semplicemente a della plastica.
La cosa più efficace per attirare l’attenzione, sarebbe quella di accendere più fuochi contemporaneamente. Sarebbe perfetto se riusciste ad accenderne tre, formando un triangolo equilatero.
I fuochi andrebbero accesi se è possibile in delle zone sopraelevate, o meglio ancora se confinano lungo il corso di un fiume. Se siete circondati da alberi, sterpaglie alte, oppure se vi è presente neve o vento che soffia forte, è meglio non cimentarsi a produrre del fuoco, in quanto perdereste solo del tempo utile.
Durante la notte, è consigliabile accendere un fuoco che sia molto luminoso. Per questo motivo, sarebbe meglio bruciare legna molto secca, capace di produrre una fiamma alta e vistosa.

SEGNALI ACUSTICI
1) Urlare: facendo conca con le mani ai lati della bocca e gridare la parola HELP o Aiuto.
2) Fischiare: avere un fischietto nel kit di sopravvivenza è sempre consigliato. Il suono emesso dal fischietto, può essere percepito anche a km di distanza e a differenza di gridare a squarciagola, si consumano molte meno energie.
3) Sparare: nel caso in cui si ha a disposizione un arma da fuoco, è sempre consigliabile sparare in aria per attirare attenzione nei paraggi.
4) Segnali a percussione: se nelle vicinanze ci sono oggetti capaci di produrre buoni suoni, è consigliabile sbatterci contro con un oggetto metallico, tipo il coltello.
SEGNALI VISIVI
1) Utilizzo del proprio corpo: agitare le braccia dal basso verso l’alto velocemente, tenendo magari in mano qualcosa di molto visibile, come ad esempio un foglio di alluminio o semplicemente degli indumenti colorati. Questo naturalmente quando è presente la luce del sole. Durante la notte, è invece consigliabile stringere tra le mani un bastone infuocato o una torcia.
2) Razzi o fumogeni: se si hanno a disposizione uno di questi due oggetti, è cosa buona accenderli subito, ricordano però che è sempre consigliato non consumarli tutti velocemente, in quanto i mezzi di soccorso, potranno inizialmente non percepire la nostra segnalazione.
3) Starlight: se si è in possesso di oggetti tipo il cyalume o il glowstick, dovranno essere subito utilizzati. La luce chimica trasmessa dalla barra, ha una durata che varia dalle 8 alle 24 ore, in base al modello che utilizziamo.
4) Coloranti solubili: se siamo su una nave, è molto facile trovare prodotti che una volta immersi nell’acqua marina, emettono una fluorescenza parecchio intensa. Questo potrà aiutarvi a far si che i soccorsi, individuino il prima possibile, la vostra posizione.
SEGNALI DEL CORPO
Questi vengono usati principalmente per comunicare da terra, ad esempio con i piloti di un aereo e vanno ripetuti più volte per essere meglio percepiti.

SEGNALI TERRA ARIA
Nei nostri kit di sopravvivenza è sempre consigliabile avere una tabella stampata.

Questi simboli, sono riconosciuti come segnali d’emergenza terra-aria e vengono utilizzati a livello internazionale per comunicare con gli aerei di soccorso.
Bisogna formare questi simboli sul terreno, tenendo conto che dovranno essere molto grandi e distanziati tra loro almeno da 3 o 4 metri. Per la realizzazione, è possibile utilizzare qualsiasi oggetto si ha a disposizione, tipo tronchi, indumenti, lamiere, rami, cespugli, pietre ecc…
Se non si ha nulla a disposizione di quanto elencato precedentemente, si può sempre scavare la terra, accentuando i bordi con quella estratta. In parole povere, bisogna creare quanto più contrasto possibile per rendere i segnali sempre più visibili per aiutare i mezzi di soccorso.
Se i vostri segnali di aiuto, verranno compresi dal pilota, durante il giorno questo oscillerà le ali dell’aereo muovendole dal basso verso l’alto, durante la notte invece vi lampeggerà con delle luci verdi.
Se i vostri segnali di aiuto, non verranno invece percepiti dal pilota, durante il giorno effettuerà un giro di 360° in senso antiorario, rispetto alla vostra posizione, durante la notte vi lampeggerà invece con delle luci rosse.

L’ELIOGRAFO
Considerato indispensabile nel nostro kit di sopravvivenza, l’eliografo è uno strumento capace di salvarvi la vita. Viene da sempre considerato uno di quei metodi più efficaci per effettuare segnalazioni sia se si è dispersi in terra che in mare.
Il riflesso che viene trasmesso da questo oggetto, è visibile da un aereo anche a 30 Km di distanza e da una nave anche a 15 km.
Se non vi è la luce del sole, è possibile utilizzare sempre l’eliografo, facendo riflettere su di esso la luce trasmessa da una faro, da una torcia o se il cielo risulta essere limpido, anche dal riflesso della luna.
Se nel nostro kit di sopravvivenza, non è presente l’eliografo, è sempre possibile utilizzare qualsiasi oggetto capace di far riflettere la luce. Possiamo utilizzare ad esempio: uno specchietto, un foglio di alluminio, un pezzo di metallo o vetro o una scatola di latta. Infine, è possibile anche utilizzare la lama di un coltello.
SEGNALI TELEFONICI E RADIO
1) Telefono:
Se essere in possesso di un cellulare, è sempre una fortuna, bisogna comunque ricordare che questo se non coperto da rete, è completamente inutilizzabile.
Quando si è circondati da fili dell’alta tensione, materiali altamente ferrosi o in zone vulcaniche il telefono non funziona.
Le batterie contenute all’interno del dispositivo, hanno un tempo di carica limitato, per questo è sempre consigliabile tenerlo spento, se non quando si ha la possibilità di comunicare con qualcuno per chiedere soccorso.
Se si è in viaggio per un posto dove non sarà possibile ricaricare la batteria del cellulare, è sempre consigliabile portare con se un caricatore a manovella dinamo.
Per far si che il telefono mobile, venga preservato dagli agenti atmosferici, è cosa buona non tenerlo esposto alla luce del sole e al riparo da pioggia o umidità. Se siamo in possesso di una busta di plastica, è consigliabile avvolgerlo dentro per sigillarlo.
Naturalmente, se si è coperti da una rete, la prima cosa da fare è quella di inviare un messaggio ai vostri cari, affinchè avvisino le autorità competenti per la richiesta di soccorso.
E’ preferibile inviare un SMS piuttosto che chiamare, per consumare meno batteria dal vostro cellulare.

2) Radio:
A differenza del telefono, la radio funziona attraverso l’emissione di onde elettromagnetiche. Per far si che questa trasmetta nel miglior modo possibile, è consigliabile portarsi su un punto alto, meglio ancora se intorno a voi non ci siano ostacoli come albri o edifici.
Per quanto riguarda la città, vi ricordiamo che il canale di emergenza è il 16 con frequenza 27 Mhz. Se si è in montagna, le frequenze iniziano dai 130 ai 140 Mhz. Se si è in mezzo al mare, i canali invece vanno dai 160 ai 170 Mhz. Per una radio in banda nautica, bisogna impostare il canale 16, se si è a bordo di un aeroplano, si dovrà portare la manopola della radio su 121.5 oppure su 243.0 Mhz.
Se siete sprovvisti di queste informazioni radio molto utili, è consigliabile chiedere soccorso sulla frequenza che compare alla prima accensione della radio. Se i tentativi risultano essere vani, bisognerà mandare le frequenze in avanti, ricordandovi di appuntare quelle precedentemente già esaminate.
Ricordiamo inoltre che le frequenze che vanno da 144 a 146 Mhz, vengono utilizzate dai radio-amatori, ma possono essere anche tranquillamente usate per richiedere aiuto o soccorso.

SEGNALI DI SOCCORSO IN MONTAGNA
Se risultate essere dispersi in montagna, vi elenchiamo le tecniche più conosciute per chieder aiuto:
1) Fischiare o lampeggiare per 6 volte per un minuto, intervallando i segnali di 60 secondi;
2) Lanciare razzi di colore rosso;
3) Formare un cerchio bianco su uno sfondo rosso;
4) Alzare le braccia agitandole. Fondamentale ricordare di non farlo con un solo braccio, questo infatti farebbe percepire a chi vi ha in vista, di non avere nessun bisogno di aiuto e che siete a posto così.
SEGNALI DI SOCCORSO IN MARE
Se siamo dispersi a bordo di una nave, molteplici saranno i mezzi al quale possiamo far riferimento per segnalare il bisogno di soccorso. Tra tutti: razzi, fuochi artificiali, fumogeni luminosi o apparecchi radio.
Ricordiamo che anche dar fuoco a olio, barili di catrame, sarà un ottimo mezzo per chiedere aiuto, grazie agli enormi fumi neri che si alzeranno in aria.
CONCLUSIONI
Nel caso in cui pensiate che le possibilità che qualcuno vi cerchi sia remota, cercate di raggiungere con tutti i mezzi che si hanno a disposizione un centro abitato, ricordandovi però di lasciare traccia di una vostra presenza dove eravate posizionati precedentemente. Scrivete ad esempio sul terreno la data del giorno in cui siete partiti, il numero di persone al seguito che richiede soccorso e la quantità di provviste che avete con voi.
Concludiamo questo articolo, ricordandovi di tenervi in vista, magari lontano da grossi alberi, affinchè abbiate più possibilità che qualcuno si accorga di voi e del vostro bisogno imminente di aiuto.

Intrappolato nella propria auto sotto tre metri di neve!

Una storia che ha dell’incredibile
Nei nostri corsi di sopravvivenza impariamo che, MEDIAMENTE, si può sopravvivere fino a 21 giorni senza toccare cibo.
Ma ogni regola, come tutti sappiamo, ha delle eccezioni.

Oggi vi raccontiamo un’avventura che ha dell’incredibile. Corre l’anno 2012 e il protagonista è un artigiano quarantaquattrenne di nazionalità svedese di nome Peter Skylberg, riuscito a sopravvivere all’interno di un’automobile sommersa dalla neve per ben due mesi.
Mentre era in servizio, un poliziotto di nome Gunner Ek, si è accorto casualmente di un riflesso trasmesso dal sole, sullo specchietto dell’auto. Dopo giorni di intense nevicate, le temperature in leggero rialzo, erano riuscite a far sciogliere parte della neve adagiata sull’auto. Il poliziotto, sorpreso, si è avvicinato alla macchina e con una pala è riuscito a creare spazio vicino ad una delle due portiere. Una volta aperta l’auto, ecco la miracolosa scoperta.
Sul sedile posteriore, vi era sdraiato un uomo, che inizialmente, il poliziotto credeva morto, salvo poi una volta avvicinatosi, scoprire che respirava.
Peter Skylberg, ormai pelle ed ossa, era rinchiuso nella sua auto da ben due mesi. Era restato bloccato in una strada secondaria, all’interno di un bosco. L’uomo, una volta trasportato d’urgenza all’ospedale di Umea (Lapponia), ha raccontato di esser sopravvissuto, ingerendo soltanto la neve, che riusciva a raggiungere da una fessura di un finestrino.

Oltre ad un giornale (la cui data, corrispondeva al 19 Dicembre, giorno in cui l’uomo era rimasto bloccato), all’interno della sua auto, sono stati rinvenuti alcuni bicchieri sporchi da residui di caffè e coca cola. Oltre a questi, un paio di carte di caramelle e per finire un sacco a pelo, strumento grazie al quale Peter Skylberg, è riuscito a non morire assiderato.

Come ha potuto sopravvivere in quelle condizioni?

I medici, dopo averlo messo in salvo nutrendolo attraverso delle flebo, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni sullo stato di salute generale del paziente. Ad oggi non si sa se quest’avventura abbia lasciato degli strascichi psico-fisici nel corpo del povero Peter o meno.

Nessuno dei familiari dell’uomo, aveva denunciato la sua scomparsa alla polizia, in quanto Peter, aveva chiuso ogni legame di parentela circa 25 anni prima. L’unica che avrebbe potuto far cenno della sua scomparsa, è la donna che Peter Skylberg chiamò il 18 Dicembre, comunicandole che avrebbe trascorso con lei le festività natalizie ormai prossime. Ma nulla fu segnalato nemmeno da quest’ultima. Si presuppone che l’uomo nel bel mezzo di una bufera, abbia perso l’orientamento, andando a finire con la propria auto in una strada secondaria all’interno del bosco e che sia rimasto sepolto dopo poco tempo da circa tre metri di neve.

Fatto realmente accaduto o totalmente inventato?
Il caso che vi abbiamo appena raccontato, fu oggetto di forte discussione all’interno di tutto il territorio svedese. A studiare attentamente il caso, sono stati chiamati addirittura alcuni soldati dell’esercito, esperti di sopravvivenza in climi artici.
I pareri dei vari esperti furono abbastanza discordanti.
Il dottor Johan von Schreeb, sostiene che è umanamente impossibile, sopravvivere per oltre 50 giorni, ingerendo solo della neve, in quanto quest’ultima non contiene nessuna sostanza indispensabile al nutrimento di un individuo. Di differente parere è invece, il primario del policlinico di Umea, il dottor Ulf Segerberg, il quale sostiene che il signor Peter Skylberg sia sopravvissuto per oltre due mesi senza cibarsi, grazie alle riserve di grasso che l’organismo aveva deciso di consumare in quel lasso di tempo.
Il fatto che l’uomo sia riuscito a non morire assiderato, i militari hanno spiegato che ciò è stato possibile, grazie al sacco a pelo che è stato rinvenuto all’interno dell’auto. Peter Skylberg, è riuscito a sopravvivere a temperature estreme di -35 gradi, anche grazie all’enorme strato di neve che ricopriva la sua auto, quest’ultima infatti è riuscita ad isolare l’interno della macchina, dal freddo gelido che proveniva da fuori.

Ora la domanda sorge spontanea. Ai vostri occhi, la storia che vi abbiamo appena raccontato, appare vera o totalemte inventata?

Fiammiferi Impermeabili – come si fanno ?

Come costruire fiammiferi impermeabili?

Partiamo dal prusupposto che i fiammiferi impermeabili possono tranquillamente essere acquistati, purtroppo però , hanno anche un costo abbastanza elevato.

Per questo motivo oggi andremo conoscere insieme alcuni metodi efficaci per realizzarli autonomamente e utilizzarli in gite da campeggio o in un’escursione nella natura.

Vi avvisiamo che tutti i metodi qui di seguito elencati, non sono privi di rischi o pericoli. Per questo motivo, se sei un minorenne, non avventurarti per nessun motivo nella realizzazione dei fiammiferi, a meno che tu non sia supervisionato da un adulto responsabile.

1- Metodo della TREMENTINA

Il metodo più SICURO è quello con la trementina.
La trementina possiede un punto di elevata infiammabilità superiore rispetto a quello contenuto nell’acetone, sostanza che viene comunemente usata per lo smalto per unghie e a differenza della paraffina o della cera, non prevede l’utilizzo di una fiamma.

– Per prima cosa, versa due o tre cucchiai abbondanti di trementina all’interno di un bicchiere.

– Prendi alcuni fiammiferi e predisponili a testa in giù all’interno della trementina e tienili a mollo per circa cinque minuti. In questa attesa di tempo, la sostanza impregnerà la capocchia dei fiammiferi e anche una parte del bastoncino.

– Ritira i fiammiferi e predisponili sopra la carta da giornale ad asciugare. Generalmente ci si impiega circa una ventina di minuti affinchè la trementina in eccesso, evapori del tutto.
Attraverso questo trattamento, i fiammiferi restano impermeabili per molto tempo, anche per cinque o sei mesi.

2- Metodo dello SMALTO PER UNGHIE

– Prendi alcuni fiammiferi ed immergili all’interno dello smalto per unghie sino almeno a 3 mm sotto la capocchia.

– Ritira su i fiammiferi, tenendoli per qualche secondo in mano ad asciugare. Subito dopo disponili su di un piano, assicurandoti che la capocchia sporga fuori dal bordo della superficie.

– Sotto di essi, adagia un foglio di giornale affinchè si eviti di sporcare con le gocce di smalto che potrebbero vernir giù.

3-Metodo della CANDELA

– Prendi una candela e accendila. Spegnila solo quando hai ottenuto una buona quantità di cera sufficiente di circa 1 cm.

– A questo punto, prendi i fiammiferi ed immergili all’interno della cera sciolta. Fai in modo che la cera ricopra intermante la capocchia dei fiammiferi.

– Ritira i fiammiferi dalla cera e come nel metodo dello smalto, poggiali su di un piano facendo attenzione che la capocchia si trovi all’esterno della superficie sul quale avete deciso di farli asciugare.

– Appena la cera si è freddata, con due dita schiaccia l’estremità ricoperta di cera, affinchè tu possa sigillarla fortemente.

4- metodo della PARAFFINA

– Prendi una pentola e all’interno scoglici a bagnomaria la paraffina. Fai in modo da riuscire a ricoprirla con la cera (almeno 1 cm di profondità)

– Prendi una quantità sufficiente di fiammiferi, legali con dello spago e immergili con la capocchia naturalmente rivolta verso il basso all’interno del recipiente contente la cera. In questo modo realizzerai una torcia capace di bruciare per almeno 10 minuti.

Consigli utili

Come già detto in precedenza, la trementina possiede un punto di infiammabilità piuttosto alto rispetto allo smalto per unghie, per questo motivo, risulta il metodo più sicuro da utilizzare. Qulsiasi trementina, sia quella minerale, sia di limone o di pino, possiedono indistintamente la stessa impermeabilità.

Se vuoi esser ancora più sicuro che l’acqua non scivoli sul bastoncino, puoi decidere tranquillamente di ricoprire i fiammiferi con la cera.

Lo smalto risulta esser più pericoloso della trementina, ma a differenza della cera garantisce più sicurezza di successo, vista che quest’ultima può facilmente rompersi o venir via.
Se utilizzi il metodo della cera, ti ricordiamo di lavorare il più velocemente possibili, in modo che la cera non abbia il tempo sufficiente per indurirsi.

Se i fiammiferi che deciderai di utilizzare, non sono quelli accendibili ovunque, ti ricordiamo di portar con te una superficie di accensione.
Se non hai a portata di mano una pentola per bagnomaria, potrai comunque scogliere la cera di paraffina all’interno di una scodella di metallo che predisporrai sopra la pentola contenente l’acqua bollente. Potrai anche decidere di scogliere la cera in una padella a fuoco lento, ma dovrai prestare molta attenzione, in quanto aumenterà notevolmente il rischio di incendio.

E’ vivamente sconsigliato utilizzare tazze di plastica per contenera la trementina, in quanto questa sostanza potrà scioglierne la superficie nel quale è contenuta.
Ti ricordiamo che la trementina è una sostanza capace di assorbire tutta l’umidità contenuta nel legno. Per questo motivo potrai tranquillamente utilizzare fiammiferi anche vecchi o datati.

Utilizzando i metodi sopra elencati, otterrete i fiammiferi impermeabili, ma noi vi consigliamo comunque di tenerli durante un campeggio o una gita immersa nella natura, all’interno di un sacchetto contenitore sigillato o richiudibile.

Consigliamo di attuare le varie tecniche sopra descritte, subito dopo aver acquistato i fiammiferi, in modo che questi possano assorbire una minima parte di umidità contenuta nell’aria.
Il metodo delle candele, ti ricordiamo di attuarlo solo quando i fiammiferi sono di legno.
Non utilizzarlo assolutamente, se questi hanno un bastoncino di plastica o di cera.

La trementina in eccesso, ricordati di travasarla nel suo apposito contenitore.

Avvertenze

Ti ricordiamo che la trementina è una sostanza tossica, per questo motivo è pericoloso ingerirla o inalarla per un periodo eccessivo di tempo.
La cera sciolta, quando si trova allo stato liquido, è eccessivamente calda, per questo motivo rischi di ustionarti o di dar vita ad incendi.

Quando maneggi il fuoco, concentrati e presta la massima attenzione.
La cera di paraffina, risulta estremamente difficile da rimuovere dalle pentole. Per questo motivo, ti consigliamo di utilizzare per il bagnomaria, una scodella vecchia oppure di acquistarne una, magari usata, da utilizzare per questo unico scopo.

Fai molta attenzione alle goccioline d’acqua, in quanto la cera di paraffina è estremamente reattiva a quest’ultime.
Quando metti in atto le tecniche dello smalto per unghie o quello con la cera, ti ricordiamo di ricoprire per bene con della carta da giornale, le superfici sul quale lavori, in quanto esistono molte probabilità di sporcarli. Inoltre è sempre utile ricordare che lo smalto per unghie è un prodotto estremamente infiammabile e racchiude al suo interno sostanze cancerogene.

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